Intervista alla Professoressa Lisa Giombini: “Lo stato dell’arte ai tempi del Covid-19”

  • Lo scorso 18 marzo è stata la giornata nazionale in memoria delle vittime dell’epidemia di coronavirus. Un anno di profonda crisi sanitaria, economica e sociale. Tra i settori più colpiti, sicuramente quello della cultura. Lei è ricercatrice in estetica all’Università Roma Tre, quali sono le sue riflessioni su questo periodo drammatico e quali pensa siano stati i maggiori cambiamenti nel mondo della cultura portati dalla crisi pandemica?

Naturalmente per le attività artistiche il bilancio è stato drammaticamente negativo. Tuttavia, guardando agli aspetti positivi di questa pandemia, anche per quanto riguarda l’arte e la cultura, voglio sottolineare l’importanza della digitalizzazione. Nel complesso, l’ingente ricorso al digitale ha incrementato la rete di collaborazioni internazionali e la stessa comunicazione.

  • E anche per quanto riguarda la stessa ricezione artistica vi sono stati importanti novità sotto questo punto di vista. Anche se forzati dall’avvento della pandemia, ci siamo infatti abituati a vivere, tra le altre cose, concerti, mostre ed esibizioni tramite un tablet. Quali ritiene possano essere in questo senso i lasciti di questo periodo “a distanza” nelle future modalità di fruizione dell’arte?

Sicuramente uno dei principali effetti della fruizione virtuale è, da una parte, il mettere in discussione quell’ossessione per l’esperienza diretta dell’arte, , quel “feticismo” legato all’aura dell’oggetto artistico che spesso contraddistinguono il modo in cui ci relazioniamo all’arte e che non sempre risultano giustificati; dall’altra, il consentire una “democraticizzazione” nel processo della fruizione artistica, rendendo accessibile a tutti un patrimonio spesso relegato ad una élite.

Tuttavia, non credo che l’esperienza virtuale potrà mai soppiantare l’esperienza dell’arte dal vivo, soprattutto nel caso delle arti performative, per tutta una serie di aspetti a esse correlati. Vi è infatti un qualcosa nell’esperienza artistica che non si limita unicamente all’opera in sé e al messaggio estetico veicolato, ma che ha a che fare con l’esperienza in carne e ossa, con le vibrazioni prodotte dai corpi, con la fisicità delle cose che ci circondano. Assistere a un concerto dal vivo è infatti qualcosa di irriducibile, qualcosa che non potrà mai essere comparato a un’esperienza “online”.

Detto ciò, deve restare aperta la questione se questo “incomparabile”, questa fruizione “fisica” è qualcosa che contribuisce alla definizione stessa di una certa arte, come la musica, oppure se è qualcosa di collaterale, bellissimo, ma non essenziale. Dobbiamo capire, più in generale, cosa si intende per arte.

  • Veniamo quindi alla tematica al centro delle sue numerose ricerche e pubblicazioni: l’autenticità dell’arte. Consapevoli che la trattazione di un tema così complesso richieda molto più del tempo di un’intervista, le chiedo, in sintesi, cosa definisce un’opera d’arte autentica e cosa invece una inautentica?

Su un primo piano, quello morale, un’opera d’arte inautentica è un artefatto che è volontariamente spacciato per quello che non è, mentre una opera autentica implica la corretta attribuzione della stessa a un determinato autore.

Esaminando la questione da un punto di vista più filosofico, una prima questione da porsi è: se presentiamo una copia ben fatta di un’opera autentica e dichiariamo esplicitamente che quella non è l’originale, perché le due dovrebbero differire in termini di valore estetico? C’è o non c’è una reale differenza estetica tra esse dal punto di vista dell’osservatore? Questo il quesito alla base del dibattito filosofico sull’autenticità dell’arte.

  • La relazione che intercorre tra valore estetico ed autenticità di un’opera d’arte, come lei afferma, è quindi un punto fondamentale dello statuto dell’opera d’arte; presupposto che a questo quesito non si potrà mai avere una risposta univoca, quali sono le principali prospettive teoriche attraverso cui affrontare la questione? Da dove bisogna partire?

Come ha appena detto lei, l’assunto di base da cui partire è accettare l’impossibilità di una risposta univoca al quesito e mantenere intatta la complessità del problema, prendendo in considerazione tutte le sue variegate sfaccettature. L’unica risposta possibile è quella che tiene conto in questo senso di tutti i diversi approcci e modalità teoriche, della vasta gamma di opinioni che ruotano attorno a questo complesso dilemma. E per farlo, dobbiamo prima presupporre uno studio non solo delle diverse posizioni filosofiche, ma anche di quegli aspetti antropologici e storici che ne sono a fondamento.

  • Ovvero?

Intendo per esempio l’assunto antropologico che si fonda sulla cosiddetta ‘legge del contatto’ e di cui tutti noi siamo, più o meno, inconsciamente vittime. Quell’idea che la materia “toccata” da un determinato individuo si contamini di una serie di valori spirituali ad esso correlati. In quest’ottica, un quadro dipinto da Giotto in persona non avrà mai lo stesso valore di una sua copia identica.

  • E per quanto riguardo l’influenza della storia?

L’aspetto storico della vicenda è fondamentale. La stessa storia e storia dell’arte occidentale hanno funzionato infatti, almeno da un certo momento in poi, secondo il paradigma dell’autenticità, in base al quale un oggetto artistico deve essere quello che è, contraddistinto da una sua storia specifica. Questo definisce una certa identità dell’oggetto, ritenuto portatore di un valore intrinseco che non può essere in alcun modo riprodotto ocopiato.

In questo senso, non è difficile riscontrare un’analogia tra l’arte e lo stesso concetto di diritto della persona, come stabilito nelle carte dei diritti umani, la cui evoluzione non a caso è avvenuta in parallelo proprio con il mutamento e il maturamento della nozione di arte.

In particolare, a seguito dei cambiamenti avvenuti con la Rivoluzione Francese, si è iniziato a ritenere che le opere d’arte fossero in qualche modo come delle “estensioni” degli individui, e che per questo dovessero essere dotate degli stessi diritti. Ne segue che se ogni uomo è in possesso di un valore intrinseco che gli appartiene in modo univoco, lo stesso deve valere per l’oggetto artistico.

  • Quindi, in sostanza, mi sta dicendo che prima di poter approcciare la questione secondo una prospettiva filosofica è fondamentale analizzare tutti quegli aspetti antropologici e storici ad essa correlati?

Direi che i due piani di analisi debbano procedere in parallelo; ma è solo prendendo in considerazione questi assunti di base, questi pilastri teorici, di natura antropologica e storica, che possiamo avvicinarci seriamente alla filosofia e alla sua interrogazione su che cos’è un’opera d’arte, e, in particolare, su quanto il suo valore estetico sia relazionato alla sua autenticità, sempre tenendo a mente, tuttavia, l’impossibilità di una risposta univoca al quesito.

La filosofia, rispetto alla stessa antropologia o alla stessa storia, ha il merito di spostare il discorso su un piano universale, chiedendosi cosa definisca l’arte e il suo valore estetico a prescindere dall’aspetto storico, contingente e fattuale della questione.

E proprio per questa complessità, ad un tale quesito non si potrà mai rispondere in modo “definitivo” e non si potrà comunque neanche provare a dare una risposta senza considerare i diversi ordini di pensiero.

Presupposto questo, personalmente mi sembra difficilmente confutare l’ipotesi che, nel variegato panorama di opinioni filosofiche, una copia supportata dalle stesse informazioni che riguardano l’originale sia  dotata della stessa validità dell’opera autentica, almeno al livello epistemico, conoscitivo, pedagogico.

  • In altre parole, quindi, l’unica vera certezza in tutto questo risiede nella complessità della domanda, irriducibile a qualsiasi semplificazione. È corretto?

Sì, o meglio, ritengo che l’assunto imprescindibile in tutto questo discorso sia  l’essere in grado di comprendere e preservare la complessità che si cela dietro a una singola posizione. Difficoltà che, del resto, sta a fondamento della filosofia stessa.

In quest’ottica, il punto dell’indagine filosofica non è rendere le cose più semplici, ma più complesse, cercando sempre, tuttavia, di restituire questa complessità nel modo più chiaro, comprensibile e dettagliato possibile.

Analizzare, aprire un dibattito a cui ognuno possa dare il proprio contributo, considerare ogni dubbio e quesito come uno spiraglio, un’apertura su un  mondo da scoprire. È questo, secondo me, il bello della filosofia.

 

 

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