Monsignor Gianpiero Palmieri (Vicegerente della Diocesi di Roma): “Roma è uno Scrigno dalle mille Bellezze”

Nell’ambito del Think Tank Remind “La Bellezza Salverà il Mondo – Natale di Roma” è intervenuto Monsignor Gianpiero Palmieri, Vicegerente della Diocesi di Roma, che ha così affermato:

“Distinte autorità, cari amici

sono lieto di portare il saluto della diocesi di Roma a questo appuntamento, che viene celebrato nel giorno Natale dell’Urbe, e che intende rilanciare la speranza di una ripresa (non solo economica, ma anche economica) proiettata nel tempo che abbiamo davanti a noi, legandola alla bellezza. Roma è, in un certo senso, uno scrigno che racchiude molte bellezze: artistiche, paesaggistiche, storiche e – non da ultimo – umane.

Vorrei condividere con voi un paio riflessioni che spero non suonino soltanto come auguri di circostanza, ma come occasione per esprimere qualcosa di quella condivisione di vita, di esperienze e di valori che costituiscono la ragion d’essere della nostra cittadinanza, cioè del nostro reciproco appartenerci in quanto membri di una medesima comunità umana che vive in questo territorio.

  1. La prima riguarda quel livello di bellezza che appare ai nostri sensi, e che potremmo definire una bellezza materiale, perché si manifesta immediatamente negli innumerevoli monumenti, nel clima particolare, nella storia millenaria di Roma. Chiunque vive, lavora o anche solo visita di passaggio il centro storico della nostra città lo sa: vedere Roma non lascia indifferenti, anzi: suscita attrazione, sorpresa, entusiasmo.

La prima cosa che dobbiamo augurarci (e anzi volere tutti) è di sapere preservare e amare questa ricchezza che si è sedimentata nei secoli, rendendola sempre più parte integrata della nostra vita del ventunesimo secolo, e non soltanto un repertorio di opere del passato. Questo potrebbe significare, ad esempio, aver cura che il centro non si svuoti di abitanti, di famiglie, di bambini; che i suoi quartieri tornino ad essere popolati da cittadini che animano le strade, i negozi, le scuole; che il centro di Roma, insomma, non si riduca ad essere soltanto una sorta di Disneyland da offrire ai turisti, dove la vita concreta e reale è stata allontanata; o un punto geografico dove gli abitanti delle altre zone di Roma si danno appuntamento per i fine settimana, mentre la loro vera vita si svolge  altrove e altrimenti.

Una cura del genere necessita di politiche di mobilità, di (re)insediamento, di investimenti … che siano mirate cioè certamente rispettose dell’identità storica della città, e che però abbiano anche come obiettivo di ravvivare l’amore dei romani per la loro città, senza che debbano sentire il rapporto con la loro storia e con l’eredità che essa vi ha lasciato come un peso o una limitazione della quale farebbero volentieri e meno.

Per questo serve che collaboriamo insieme: comunità civili, comunità religiose, imprenditoria, addetti al comparto della cultura, dell’arte e del turismo, educatori e insegnanti, operatori dei vari settori. Forse ci dobbiamo reciprocamente aiutare a non soltanto approfittare di quello che la storia di Roma ci offre come possibilità di sfruttamento turistico e commerciale, ma anche ad offrire noi stessi in questa storia come un nuovo anello di crescita e di sviluppo, così da lasciare anche noi – a quelli che verranno dopo di noi – un pezzo di bellezza in più da ammirare: quello che noi avremo saputo aggiungere a Roma per l’esistenza che vi avremo trascorso.

  1. Una seconda riflessione che vorrei condividere riguarda quel livello della bellezza che potremmo definire immateriale.

Titolando “La grande bellezza” il suo celebre film, Paolo Sorrentino per un verso constata un dato di fatto – e cioè che Roma è una grande bellezza – ma pone dall’altro anche una decisiva domanda. Ricordate? Ad un certo punto Jep Gambardella si chiede: «Mi chiedono perché non ho più scritto un libro. Ma guarda qua attorno. Queste facce. Questa città, questa gente. Questa è la mia vita: il nulla. Flaubert voleva scrivere un romanzo sul nulla e non ci è riuscito: dovrei riuscirci io?». Sembra quasi il segno di un fallimento durato un’intera vita: «Cercavo la grande bellezza ma non l’ho trovata» dice il protagonista.

Si può vivere a Roma e non trovare mai una bellezza grande, che riempia la vita. Il protagonista di quel film cerca una bellezza che non consiste in monumenti da ammirare (che comunque lo circondavano), in feste mondane a cui partecipare (alle quali non mancava), ma in relazioni autentiche da vivere: relazioni buone, significative, dove si giochi anche la dimensione affettiva, quella dimensione capace appunto di riempire un’esistenza e di volgerla a uno scopo.

Questa è una bellezza immateriale che fa parte del codice genetico dei romani (i quali continuano a rimanere gente de core), ma che rischia di sparire, laddove la vita sia fondata su cose da fare o da possedere, e non anche sulla natura spirituale dell’essere umano. È a questo livello che si incontrano la bellezza esterna e quella interiore, della quale dobbiamo avere ugualmente cura attraverso l’educazione, la cultura, le virtù civiche, la politica… ma anche attraverso la vita dell’anima, e cioè la fede religiosa, la vita interiore, la filosofia, la relazione con un Assoluto trascendente. La città di Roma porta segni evidenti e plurimi di questa vita religiosa non meno che di altre dimensioni dell’umano. Trascurarli, rimuoverli, ostacolarli, in un certo senso potrebbe costituire una violenza fatta alla città, oltre che alle persone che ci vivono, e che potrebbero ritrovarsi – proprio come Jep Gambardella – ad aver sprecato la grazia di vivere a Roma.

È proprio quel che si intuisce attraverso la bellezza dell’arte, o per la potenza semplice della natura, o indagando il mistero racchiuso nella religione o quello che costituisce la realtà stessa dell’uomo; è tutto questo a fare di un muscolo il cuore dell’uomo, di un organismo naturale una persona, di un sistema di energie e di dati fisici il creato. La bellezza trasfigura la materia e la corporeità; senza di lei saremmo solo cose tra le cose, bestie tra le altre bestie. La realtà e la vita non coincidono con la pura materia. Il corpo senza l’anima immateriale non sarebbe che un cadavere; la materia senza bellezza e senza l’uomo che ne subisce il fascino, non sarebbe che un ammasso di cose inerti. E l’uomo senza fede, amore e speranza sarebbe un animale. Peggio: negandole e togliendole, l’uomo diventa brutto – a volte, purtroppo, persino un bruto.

  1. Dunque, ed è la mia terza riflessione, che in realtà è una domanda: possiamo – per rilanciare la storia di questa nostra città – ritrovarci tutti a partire dal comune desiderio di vivere una vita bella? Non solo ciascuno di noi personalmente, per conto proprio, ma noi in quanto popolo di Roma – gente che ci vive da sette generazioni e gente che è venuta ad abitarci di recente? La sfida in fondo è questa: che tutti mettiamo in circolo i nostri beni, quelli materiali e quelli immateriali, riconoscendo in questa città benedetta l’ambiente che riuscirà a farne una felice sintesi, come in altri tornanti della sua storia è avvenuto.

Perché questo avvenga dobbiamo poterci mettere tutti alla ricerca di questa “bellezza che salva il mondo”. L’espressione, come sapete, è presa da L’idiota di Dostoevskij, e nel racconto è una domanda decisamente provocatoria che l’ateo Ippolit rivolge al principe Myskin, quasi riassumendo tutte le domande che ciascuno di noi pone a se stesso e a Dio sul senso del tempo e della storia: “È vero, principe, che voi diceste un giorno che il mondo lo salverà la bellezza? Signori – gridò forte a tutti – il principe afferma che il mondo sarà salvato dalla bellezza… Quale bellezza salverà il mondo?”.

Commentando in una sua lettera pastorale (che aveva lo stesso identico titolo del nostro incontro) questo passo del romanzo, il cardinale Martini scrisse: “Il principe non risponde alla domanda (come un giorno il Nazareno davanti a Pilato non aveva risposto che con la Sua presenza alla domanda: “Che cos’ è la verità?”). Sembrerebbe quasi che il silenzio di Myskin – che sta accanto con infinita compassione d’ amore al giovane che muore di tisi a diciotto anni – voglia dire che la bellezza che salva il mondo è l’amore che condivide il dolore”.

Possiamo essere certi che questa bellezza salverà il mondo, e – nel mondo – Roma. Contare un nuovo anno di vita della nostra città ci aiuta a ritrovarci in un compito comune, che ricomincia ogni giorno, proprio in rapporto alla bellezza: il compito di contrastarne la sua negazione sottile e pervasiva nella vita di credenti e non credenti e che si riconosce per la mediocrità che avanza, il calcolo egoistico che prende il posto della generosità, l’abitudine ripetitiva e vuota che sostituisce la fedeltà vissuta come continua novità del cuore e della vita.

Proprio perché amiamo Roma e la sua bellezza materiale e immateriale – il suo popolo, la sua gente – possiamo aiutarci a promuovere e a custodire tutto quello che ogni giorno suscita attrazione, sorpresa, dedizione, innamoramento, entusiasmo; ciò che l’amore scopre nelle persone che ama, in quelle persone che riconosciamo come degne del dono di noi stessi.

  1. Vorrei concludere questo mio breve saluto citando un passo dall’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco, che è papa in quanto vescovo di Roma, di questa città. Si trova al capitolo sesto, significativamente intitolato “Dialogo e amicizia sociale”, laddove propone la gentilezza come virtù sociale. Scrive dunque il Papa:

La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall’ansietà che non ci lascia pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere felici. Oggi raramente si trovano tempo ed energie disponibili per soffermarsi a trattare bene gli altri, a dire “permesso”, “scusa”, “grazie”. Eppure ogni tanto si presenta il miracolo di una persona gentile, che mette da parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per prestare attenzione, per regalare un sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza. Questo sforzo, vissuto ogni giorno, è capace di creare quella convivenza sana che vince le incomprensioni e previene i conflitti. La pratica della gentilezza non è un particolare secondario né un atteggiamento superficiale o borghese. Dal momento che presuppone stima e rispetto, quando si fa cultura in una società trasforma profondamente lo stile di vita, i rapporti sociali, il modo di dibattere e di confrontare le idee. Facilita la ricerca di consensi e apre strade là dove l’esasperazione distrugge tutti i ponti (224).

Auguriamoci tutti di riaprire quotidianamente, ordinariamente, la strada alla bellezza che salva il mondo a partire da questa gentilezza, che è il principio di una relazione che trasforma lo sguardo e i gesti”.

Monsignor Gianpiero Palmieri (Vicegerente della Diocesi di Roma)
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