Scegliere la Cultura è sempre Vincente: parola di Rocco de Vitto

Qualche giorno fa abbiamo avuto il piacere di intervistare il maestro Rocco de Vitto, talentuoso ed esuberante insegnante di pianoforte presso il Conservatorio “Santa Cecilia” di Roma, nonché concertista e ‘filosofo’ mancato, che ci ha raccontato un po’ di sé e del suo percorso personale e professionale nel modo che gli è più congeniale e familiare: accompagnandosi con un ‘tappeto sonoro’ al pianoforte. Fornendoci una panoramica della situazione attuale dei conservatori italiani, ci ha suggerito spunti interessanti su come la didattica possa fare anche tesoro di questo periodo per innovarsi e quanto sarebbe importante per ognuno di noi coltivare la musica sia in ambito accademico che non.

Com’è nata questa passione?

Tutto è nato quando ero molto piccolo. Mia madre mi portava in chiesa e sentivo che il mio orecchio era infastidito dalle stonature canore ed era invece attratto dalle armonie che realizzava un vecchio organista di paese. Vista la facilità con cui riuscivo a memorizzare tutte quelle melodie, i miei genitori decisero di regalarmi una piccola fisarmonica e così ho cominciato sostanzialmente da autodidatta. In seguito iniziai a prendere lezioni con un insegnante che a un certo punto però disse a mio padre che non sapeva più cosa insegnarmi perché avevo superato il maestro.

Quindi a un certo punto è stato necessario trovare un altro strumento. Quando è avvenuto il colpo di fulmine col pianoforte?

Ero andato a studiare in un Istituto di Napoli, e lì ho messo spontaneamente le mani su un pianoforte. Un maestro mi sentì casualmente e mi disse che ero particolarmente portato, e così sono entrato nel circuito musicale del Conservatorio di San Pietro a Majella. Da lì poi ho bruciato molto velocemente le tappe e sono arrivato a Roma quando facevo il quarto anno di pianoforte, trasferendomi al “Santa Cecilia”.

Adesso è consentito portare avanti gli studi musicali e il liceo insieme, ma all’epoca questa cosa non era vista di buon occhio dagli insegnanti. Che fare?

All’epoca l’equazione era questa: se non sei bravo è inutile trascinarsi, meglio lasciare il pianoforte e andare al liceo; se sei bravo devi scegliere perché a quel punto hai le chances di fare il pianista. Io all’epoca mi sono un po’ trovato, devo dire, con una conditio dei miei genitori. Mio padre non era una persona colta ma aveva colto quanto fosse importante la cultura, e mi spronò a non lasciare il liceo perché l’istruzione nella vita serve. Così ho scelto di non scegliere e faticosamente ho portato avanti entrambi i percorsi: ho frequentato il liceo dove mi sono divertito molto per la socialità, ma ho sempre dato la priorità agli studi musicali in conservatorio.

Una volta concluso il liceo poi hai scelto definitivamente la musica?

Sì, all’università ho fatto la famosa scelta, quando mi sono reso conto che il pianoforte mi poteva dare delle soddisfazioni. Così intorno ai vent’anni ho cominciato quello che è un po’ l’iter di tutti noi, e ho avuto la fortuna di entrare velocemente in ambito didattico; era un momento storico in cui se eri bravo onestamente trovavi lavoro molto agilmente.

Facciamo intervenire allora il Rocco “filosofo”. Cosa pensi delle scelte nella vita?

Secondo me la filosofia base della vita è quella delle scelte. Se non le facciamo semplicemente le rimandiamo, ma è impossibile non farle arrivati ad un certo punto. E le scelte non si possono configurare come giuste o sbagliate, anche a posteriori. Insomma non mi vorrei addentrare ulteriormente perché non ho fatto filosofia, ma insomma spero comunque di essermi spiegato.

Qual è stata la scelta che ti ha portato dove sei adesso?

La scelta che sicuramente mi ha condotto dove sono adesso è quando mi si è presentata la possibilità di insegnare nei conservatori. Ero a fare un concerto in Canada e mi è arrivata la proposta del conservatorio. Lì mi dicevano che se fossi rimasto sarei diventato ricco e famoso, ma io ho deciso di tornare. E chi lo sa se ho fatto bene? È meglio se non ce lo poniamo questo interrogativo, però è andata così. In seguito ho dovuto scegliere dove andare, perché avevo vinto la cattedra in cinque diversi conservatori, e dopo aver trascorso 7 anni in quello di Cosenza ho ottenuto il trasferimento a Roma.

Com’è stato tornare al “Santa Cecilia”, questa volta come docente?

È stato davvero straordinario e poi, combinazione, ho avuto la fortuna di prendere la cattedra della mia insegnante di pianoforte che proprio in quel momento stava andando in pensione. Per la mia insegnante è stata un’emozione indescrivibile, una sorta di passaggio del testimone. Per me studente subentrare alla mia docente è stato il coronamento di un sogno. Quando all’epoca attraversavo i corridoi del conservatorio mai mi sarei immaginato che un giorno li avrei attraversati come insegnante perché mi sembrava qualcosa di troppo lontano, irraggiungibile.

Come Rocco filosofo aggiungo che per far sì che i sogni si realizzino bisogna crederci. Prima di tutto è bello sognare e poi, se uno ci crede veramente, qualche volta nella vita i sogni si avverano. Ecco, nel mio caso, una cosa impossibile che non pensavo si sarebbe mai realizzata, si è avverata.

Parliamo un po’ dei conservatori riformati di oggi. Meglio o peggio?

Diciamo che adesso è venuto fuori un conservatorio allargato quindi, vedendola in positivo, offre maggiori opportunità rispetto al passato nel senso che si possono seguire più materie e uno studente può uscire più completo, o almeno l’intento di base era quello. Per arrivarci probabilmente tutti i passaggi non sono stati lineari: in primis non si sarebbe dovuta far fare una riforma così a tavolino da burocrati del Ministero, da funzionari, e tanto meno far realizzare le griglie di studio da persone che non erano direttamente coinvolte nell’ambito dell’insegnamento musicale, non può funzionare così.

Aver dato poi autonomia ai conservatori senza riprogettarli ha portato a una sorta di anarchia, oltre che ad una grande confusione. Tutto ciò ha contribuito poi ad aumentare il dislivello preesistente tra le diverse istituzioni. Una differenziazione poi che non è logica, perché è normale che un allievo si iscriva nel conservatorio della propria città, e non si può essere penalizzati perché la propria città di origine non è Roma, Napoli o Milano.

Quale potrebbe essere una possibile soluzione per il conservatorio del domani?

L’ideale sarebbe sicuramente far diminuire il numero dei conservatori sparsi per tutto il territorio nazionale, vi dico solo che l’Italia è il Paese europeo con più istituti di alta formazione musicale.  Una volta ridimensionati di numero poi sarebbe opportuno portare i rimasti allo stesso livello, lavorando su meno realtà ma rendendole più efficienti.

Oltre tutto secondo me sarebbe stato intelligente optare per avere direttori nei conservatori che provenissero da realtà altre, e non interni facenti parte del corpo docente. Questa riforma dove praticamente ai conservatori è stato dato un direttore che viene votato dal collegio docenti, un collega incaricato, non è efficace o almeno, per quanto riguarda l’Italia, non funziona. Con la nomina di un direttore esterno si sarebbero evitate situazioni ambigue di favoritismi, pregresse amicizie, ecc. Secondo me chi dirige dovrebbe essere super partes e dovrebbe essere eletto magari tramite concorso nazionale; inoltre dovrebbe diventare ‘direttore’ nel senso di ‘direttore artistico’ a cui poi sarebbe opportuno affiancarne uno ‘amministrativo’. Questa è un’idea per il conservatorio del domani che potrebbe essere anche dell’oggi.

Dovremmo prendere spunto dall’Accademia che si è allontanata da questo modus operandi assumendosi diciamo la responsabilità di nominare. Questo meccanismo, scegliere come direttore artistico un esterno che potrebbe essere anche uno dei grandi nomi del panorama musicale odierno, potrebbe ridare verve e nuova linfa a delle istituzioni, quali appunto i conservatori, che stanno perdendo appeal. Noi scegliamo di non avvalerci di queste personalità a nostro discapito, confinandole in un certo senso e spingendole poi a rivestire ruoli in scuole, istituti privati, apportando un enorme prestigio a quest’ultime (ad esempio la ‘scuola’ di Lugano di Martha Argerich o l’Accademia Pianistica Internazionale di Imola di Vladimir Ashkenazy) e facendo perdere un’occasione strepitosa ai nostri conservatori.

Cosa si potrebbe fare invece per stimolare maggiormente i giovani talenti allo studio della musica in conservatorio?

Qui a Roma abbiamo la fortuna di contare sulla presenza di tutti, e questi maestri amano i giovani. Poi il Santa Cecilia ha la collaborazione con l’Accademia, sono cugine diciamo, e quando questi big vengono invitati a suonare lì si potrebbe pensare di mettere per iscritto anche diciamo un pit stop in conservatorio. A quel punto veramente si darebbe lustro all’istituzione, e non sto parlando della possibilità di pianificare delle masterclass, ma più semplicemente ad esempio organizzare un incontro in cui gli studenti si possano trovare faccia a faccia con una grande personalità del panorama musicale odierno: penso che sia una di quelle esperienze che potrebbe davvero cambiargli la vita. Registriamo una mancanza di incontri ‘clamorosi’ che stimolerebbero i più giovani, risponderebbero agli interrogativi dei più grandi, riunirebbero e consoliderebbero il rapporto tra il docente e l’allievo.

Parlo di musicisti classici ma si potrebbe tentare un approccio anche con altri mondi musicali, del rock, del pop, del jazz, dato che il conservatorio si è ampliato e si è dotato anche di dipartimenti più contemporanei.

“Accademico o non accademico, questo è il dilemma”. Come uscirne?

Il conservatorio dal’99 si è aperto a nuovi corsi come dicevo poco fa, quindi perché non beneficiare anche della presenza di chi accademico, nel senso più rigoroso del termine, non è? In questo modo avremmo riavvicinato questi mondi, l’accademico e il non accademico, il classico e il popolare. Se c’è una cosa buona di tutta questa riforma è proprio quella che si vuole superare questo concetto. Quando ero uno studente nominare ad esempio Lucio Battisti ti faceva apparire come un dilettante, poi se lo suonavi era ancora peggio. Oggi stiamo sdoganando tutto questo ma c’è ancora tanta strada da fare e dobbiamo essere all’altezza della situazione.

Ad esempio Ennio Morricone c’è chi lo considera accademico e chi no. Ha studiato con Petrassi, grande accademico e musicista, e si è diplomato in conservatorio in tromba, in strumentazione per banda, in composizione, in musica corale, insomma chi più ne ha più ne metta. Eppure ha consacrato la sua vita alla composizione di musiche da film, quindi alla creazione di qualcosa che fondamentalmente nasce come accompagnamento. Possiamo portare avanti questa discussione all’infinito ma in realtà non portiamo avanti nulla in sostanza. Dove inizia e dove finisce l’accademico? L’accademico è tutto buono, o no? Il popolare è tutto negativo, o no? Questi sono i quesiti, e chi ti può rispondere? Nessuno. Aggiungo poi che nei repertori dei grandi musicisti del passato sinceramente non è tutto oro: non tutto l’accademico è perfetto, e lo stesso vale indiscutibilmente per il popolare. Esistono poi brani considerati popolari che non hanno nulla da invidiare a quelli accademici, canzoni che potrebbero tranquillamente rientrare in un contesto accademico e perché no essere insegnate e suonate in conservatorio.

A questo punto parliamo un po’ della didattica. Come dovrebbe essere e cosa dovrebbe fare un insegnante per definirsi un buon docente?

La didattica può essere facile come no. Il docente non dovrebbe ripeterti e impartirti quello che lui ha acquisito, o almeno non solo, ma dovrebbe andare oltre sé stesso. Il vero docente non è quello che per tutti gli anni in cui insegna ripete sempre le stesse cose nella stessa identica maniera. In questo modo oltre a risultare terribilmente noiosi si correrebbe il rischio di far disinnamorare le nuove promesse. Quando gli allievi abbandonano il campo, bisognerebbe capire come mai e vedere se in parte ciò avesse a che vedere anche col modo in cui si insegna. Una cosa che mi colpisce molto è che mentre in altre professioni la tecnologia li obbliga a stare al passo, noi non crediamo nell’evoluzione del nostro lavoro, e questo a mio avviso è lo sbaglio più grande.

Quindi un buon didatta dovrebbe sicuramente essere in grado di improvvisare allo strumento, e insegnare anche brani che vanno oltre l’accademico. Gli allievi poi non sono tutti uguali, e se un docente non tiene conto, nel suo modo di insegnare, delle diversità di ciascuno di loro, potrebbe tranquillamente fare più danni che altro. L’errore del livellamento è dietro l’angolo e così facendo si finirebbe per non valorizzare e non far emergere nessuno di loro.

Io credo che dobbiamo puntare a questo, a un’evoluzione del docente e del suo modo di insegnare. In moltissimi casi gli insegnanti continuano ad apparire autoreferenziali e al centro non viene messo lo studente ma è lui il protagonista indiscusso a cui non si deve rubare la scena, altrimenti sono guai. Per non parlare del fatto che i programmi didattici sono sempre gli stessi e magari invece alcuni studenti avrebbero piacere o sarebbero propensi a suonare altro che sentono più vicino al loro gusto personale, più nelle loro corde. Se non c’è evoluzione c’è stasi e ristagno e questo remare contro il cambiamento, ostinarsi a pensare che l’aggiornamento sia solo qualcosa di negativo, finisce per rivoltarsi contro ciò che abbiamo di più prezioso: i nostri giovani che sono il nostro futuro.

Come si potrebbe ripensare un insegnamento della musica nelle scuole?

Sarebbe auspicabile un approccio alla musica più strutturato, avvicinando già dall’infanzia un bambino alla musica. Lasciando da parte il flautino, è impensabile poi che una scuola non abbia in dotazione uno strumento principale, come ad esempio il pianoforte. Sarebbe importante far familiarizzare i giovani con questo strumento, e ciò gli consentirebbe di conoscere ed approcciare la musica. Poi da lì uno studente potrebbe essere incentivato, stimolato e incuriosito ad approfondire lo studio di uno strumento in particolare. Insomma sarebbe arrivato il momento di capire che la musica, la sua conoscenza in teoria e in pratica, è cultura in generale e non è qualcosa di elitario ad esclusivo appannaggio dei musicisti professionisti.

E i licei musicali?

Il discorso dei licei musicali meriterebbe una trattazione a parte. Indubbiamente è un progetto stupendo sulla carta ma che in concreto non sta decollando. Il Santa Cecilia aveva il liceo al suo interno: si studiava latino, greco e anche musica. Poi però il liceo è stato espulso, mi sembra nei primi anni’70. Quindi i ragazzi una volta arrivati alla fine delle superiori dovrebbero essere messi in grado, come succede per i licei artistici, di scegliere ad esempio un percorso musicale che i licei dovrebbero assicurare, ma ciò non accade. A Roma ne esistono diversi ma il problema è che dovrebbero essere più capillari e soprattutto strutturati meglio con un’offerta didattica più mirata.

Come vedi la “smartizzazione” dell’insegnamento musicale?

Necessità fa virtù, e questa situazione ci ha portato a dover per forza rivedere delle cose e a scoprirne di nuove. Prima di questa pandemia non avremmo mai pensato di poter fare una lezione di strumento a distanza, virtuale, era inconcepibile. Invece adesso abbiamo scoperto che si può. La crescita della tecnologia ci ha obbligati a fare un salto e ad avere maggiori chances. Le materie teoriche si possono fare comodamente, le lezioni di strumento si possono fare ammesso che ci sia un ottimo collegamento, e che uno a casa sia dotato di uno strumento buono. Prendiamola quindi come un’opportunità in più: questa situazione ci ha obbligato a dotarci di mezzi più all’avanguardia e sempre migliori. Logicamente la presenza non la potremo mai sostituire, ma è certo però che nell’impossibilità di vedersi di persona, sfruttare in modo massiccio la tecnologia ed esserne più padroni è una cosa che ha permesso di ampliare il nostro background. In futuro poi immagino che per un concerto ci sarà un pubblico in presenza, ma anche uno online che guarderà lo spettacolo in diretta da casa. La divulgazione potrebbe essere ancora più forte, avere maggiore eco e si potranno attrarre e coinvolgere così più persone.

Quali sono i tuoi progetti futuri come docente, come performer, come Rocco?

Proprio perché amo coltivare sogni che potrebbero diventare realtà ma soprattutto perchè credo nel mio lavoro di didatta e quindi nei giovani, nei miei studenti e nelle loro capacità, ho fondato, insieme a delle mie alunne, l’associazione ‘Musica a Margutta’, che nasce appunto nell’omonima via di Roma famosa per gli artisti, che però non ha una tradizione musicale particolare. Noi siamo ancora molto piccoli, ma abbiamo una grande forza con cui vogliamo portare avanti questo bellissimo progetto tentando di differenziarci dalle altre associazioni culturali con la nostra mission: quella di mettere insieme un po’ tutto, una tradizione musicale totale, accademica e non, che vada ad abbracciare la cultura tout court. Abbiamo una scuola di musica, un club del libro, teniamo lezioni concerto, corsi di improvvisazione, laboratori di scrittura creativa e organizziamo molte diverse attività tante quante sono le diverse manifestazioni artistiche. Nei programmi dei nostri concerti poi trovano spazio Bach, Mozart, Beethoven, Schubert, accanto a Elton John, Lucio Battisti, John Lennon, Fabrizio De André, insomma c’è spazio per tutti, nessuno escluso. Noi veniamo tutti dal mondo accademico del conservatorio, eppure tutti quanti sentiamo l’esigenza, e lo stiamo già facendo con i nostri eventi, di superare questo gap, cercando di andare oltre,  trasmettendo la nostra passione e coinvolgendo tutti a ogni livello per cercare di far capire che scegliere la cultura, in generale, è sempre vincente.

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